La riflessione domenicale del presidente della Cec
«Sarebbe rassicurante pensare che in guerra il nemico sia sempre e comunque quello fuori di noi. E che, una volta vinto il nemico, sia risolto il problema del male. Sarebbe rassicurante, ma anche troppo comodo».
Quel che lo storico Sergio Luzzato scrive in uno dei suoi saggi è chiaro: si possono vincere le guerre, ma non è detto che ciò basti a debellare le ragioni irrazionali che ne determinano lo scoppio. Ed è forse proprio questo il nodo irrisolto dell’eredità del 25 Aprile, festa che dovrebbe essere di tutti ma che col tempo è stata trasformata, ogni volta, in occasione di confronto spesso tracimato in divisioni sterili quanto futili e dannose. È il segno della confusione che impera sotto i cieli della modernità: la cultura, intesa come capacità di interpretare la realtà, è oggi debole di fronte alle semplificazioni dettate dalla paura. Siamo portati a vivere come punti interrogativi che camminano, desiderosi di una gran voglia di cambiamento, ma in quale modo e verso quale direzione questo cammino debba orientarsi, sembra essere questione lontana dall’essere risolta. Eppure, proprio guardando alla battaglia di civiltà per liberare l’Italia e il mondo dal nazifascismo, con il sacrificio anche di moltissimi cattolici, una certezza c’è: fascismo e nazismo hanno lasciato un marchio indelebile, che non ammette amnesie o revisionismi. Non fuori, neppure dentro ognuno di noi. I campi di concentramento e di sterminio, ad esempio, non sono un’opinione: sono fatti. «Considerate che questo è stato», scrive Primo Levi: un monito che non lascia spazio a repliche di alcun tipo.
È allora evidente la necessità di uno sforzo per ridare radici, motivazioni e spessore etico ad una quotidianità in cui, un po’ in ogni ambito, si avverte una scarsa capacità di previsione, e dunque di costruzione dell’avvenire, perché chi non sa da dove viene difficilmente può sapere dove va. In questo i cattolici sono tenuti ad un impegno concreto, perché dal Vangelo e dalla sua pratica scaturisca una cultura che spieghi la realtà e sappia accrescere una conoscenza e una comprensione più profonde e umane del reale.
Vale la pena richiamare, in proposito, un episodio che ebbe come protagonista David Maria Turoldo, che nel corso di un incontro con alcuni studenti ne catturò l’attenzione raccontando loro un aneddoto personale, di quando era stato con la pontificia opera di assistenza a raccogliere le ceneri nei lager. Diceva: «Ho in mente lo scricchiolare sotto le scarpe, la sensazione che fosse sabbia e invece erano ceneri dei morti usciti dal camino». Un fatto banale, però capace di far capire quanto la storia sia maestra. Per questo, ancor più in un tempo di crisi sociale ed economica, in cui la pandemia ha reso tutto più difficile, è legittimo arrivare al 25 Aprile chiedendosi se il Paese abbia ancora un “idem sentire”, un punto di riferimento comune cui ispirarsi. Ma la risposta c’è: è la Costituzione, un patrimonio comune formatosi in un periodo difficile, a partire da visioni del mondo contrapposte eppure capaci di trovar sintesi. Anche questo è stato, fortunatamente. E va difeso, perché sempre possa essere.