Evento del Festival d’Autunno “Ma rimane il canto”, andato in scena nel tardo pomeriggio di ieri al Museo Marca di Catanzaro
«Considerato questo tema – ha spiegato in apertura il direttore artistico – non potevamo che inserire in cartellone un evento dedicato alla poesia. E lo abbiamo fatto con un omaggio a mio padre, Pietro Santacroce, che molti hanno conosciuto come medico e meno come poeta. Un medico che è stato
esempio di umanità e abnegazione e che ha incarnato profondamente la vera essenza della professione: stare vicino a chi soffre. Ma nello stesso tempo è stato un uomo dalla profonda sensibilità umana e culturale. Un poeta vero – ha proseguito – capace di scavare dentro l’essere, nelle rughe dell’anima, alla ricerca delle sconvolgenti ragioni della vita, dell’uomo innanzitutto e della natura con cui ci si trovava quotidianamente a misurarsi. Diceva che “muore solo chi non lascia eredità di affetti”, chi non lascia ricordi. Ebbene – ha concluso- lui ne ha lasciati diffusamente e l’omaggio di questa sera alle sue poesie va in questa direzione».
«La parola – ha spiegato Luigi La Rosa introducendo la serata – è una delle cifre interpretative della sua poesia. Nelle liriche di Santacroce la parola diventa canto e il canto amore. Perché la poesia non serve a chi la scrive ma a chi la ascolta». E in un’atmosfera intrisa di commozione e coinvolgimento emotivo per la presenza di tanti familiari e amici del medico-poeta, la magistrale lettura dei versi affidata ai due attori del Teatro di Calabria, Maria Rita Albanese e Salvatore Venuto, ha messo in evidenza la sorprendente cifra stilistica e contenutistica dei componimenti di
“Pierino”, come affettuosamente lo chiamavano gli amici, raccolti in “Nel silenzio”, del 1988; “Ma rimane il canto” (che ha dato il titolo alla serata) del 1990 e “Partirò per restare”, pubblicata postuma da Rubbettino proprio in occasione dei 10 anni della sua scomparsa.
«La scelta antologica delle poesie che abbiamo deciso di proporre in questa occasione – ha proseguito il critico – dimostrano una vena facile nello scrivere da parte del poeta. Ma attenzione, non si tratta di semplicismo o dilettantismo: la sua poesia è scaltrita, abbonda di figure retoriche, chiasmi, ossimori che danno il senso di quanto lui fosse un grande lettore di poesie».
Lo ha ripetuto più volte La Rosa: quella di Santacroce non è una “poesia naif” ma si tratta di un modo di scrivere che affonda le sue radici nelle opere di Pascoli, Montale e D’Annunzio. «Una poesia mai ingenua – ha detto – frutto di una maturazione dell’animo». Diversi i nuclei tematici che hanno caratterizzato il percorso proposto dal Teatro di Calabria. C’è la poesia della fanciullezza, quella della spontaneità del linguaggio. Ma anche quella segnata dalla guerra, dalla malvagità e dal dolore che, tuttavia, non gli fanno perdere la voglia di cantare alla vita.
«Perché per Pietro Santacroce – ha proseguito La Rosa – il vero senso dell’esistenza è donarsi agli altri. In lui c’è il rifiuto dell’identificazione dell’essere con l’avere, il rifiuto dell’egoismo che gli fa paura».
C’è poi la fase degli interrogativi a cui cerca di dare risposta con la sua professione di medico. «Ma presto si smarrisce di fronte al senso marcato della vita. Il mistero della vita e della morte lo attrae. Per lui l’unico modo per infuturarsi – ha spiegato il professore – è donarsi all’altro e lo fa anche attraverso la sua poesia».
Credente, religioso, Santacroce era alla continua ricerca di Dio, di una vita che non ha il limite della morte. In questa esplorazione che costituisce una parte centrale della sua poetica, «i suoi versi sono più incisi che scritti. Producono un suono metallico che resta nel nostro pensiero. Il tempo diventa una prigione da cancellare mentre ci si vorrebbe consegnare all’eternità e non all’istante che ci sopprime. Il suo – ha proseguito La Rosa – è un sogno di libertà che si può raggiungere soltanto attraverso la poesia».
Tutto un nucleo tematico di questa sorprendente produzione è poi dedicata agli affetti familiari, con le ultime liriche raccolte in “Partirò per restare”, titolo che perfettamente sintetizza il senso profondo della sua poesia ma, più in generale, della nostra vita.
«Pietro parte e un altro Pietro, il nipote, arriva. Così ritorna il tema della parola che qui è quella uguale in tutte le lingue del mondo: il vagito di un bimbo che nasce con tutto il senso di mistero che questo miracolo racchiude in sé. La morte non è la fine ma il mezzo attraverso cui la vita può continuare in quelli che restano. È una poesia bellissima, molto vicina alle tematiche dannunziane».
Il pubblico apprezza, si commuove. E anche chi non ha conosciuto il medico-poeta non può che lasciarsi coinvolgere dalla carica emotiva dei suoi versi. Alla fine, per tutti i presenti, l’omaggio della sua ultima raccolta con l’invito a leggere le sue liriche in solitudine «perché le poesie – ha
consigliato La Rosa – vanno lette nell’intimità per comprenderle a fondo».