“Il mio amico Giovanni”, di Pietro Grasso e Alessio Pasquini, è un libro che è una necessità soprattutto nel trentennale delle stragi, per raccontarle a chi non c’era e assicurarsi che la storia abbia un futuro, senza farne un ricordo mesto né un esercizio storico o rituale. È una storia di amicizia e di lotta alla mafia.
Ai trent’anni dalle stragi Grasso ha avvertito l’urgenza di lasciare una traccia di quello che è stato il suo rapporto con Giovanni Falcone, “per evitare che certe immagini scoloriscano”. C’è chi ricorda, tra la gente comune, cosa stava facendo il giorno in cui Falcone o Borsellino sono stati uccisi. Per i giovani si tratta invece di racconti ex novo, a partire dai contesti in cui questi avvenimenti si sono svolti. Grasso ha voluto far conoscere Falcone oltre l’eroe, oltre il mito, nella sua quotidianità. “Non si trattava di un uomo con superpoteri al di fuori della realtà. Falcone e Borsellino erano persone normali come noi, ma eccezionali nella loro professionalità, nel loro senso del dovere”. Perciò è importante per i giovani che si affacciano al mondo conoscere e vedere queste personalità come dei modelli ai quali ispirare il proprio agire di ogni giorno.
Falcone e Grasso si incontrano per la prima volta in occasione delle indagini su un reato apparentemente banale, il furto di un motorino, rispetto al quale Grasso ricorda soprattutto la perizia e l’abnegazione con il quale il giudice Falcone abbia lavorato. Questo è stato il punto di partenza di un’amicizia profonda, di un rapporto di stima e insieme di affetto.
Pietro Grasso ripercorre poi gli anni del suo incarico come giudice a latere del Maxiprocesso, istruito dal Pool Antimafia di Falcone e Borsellino che sancisce la fine dell’impunità di Cosa Nostra, diventando quindi parte attiva e insieme testimone di un evento storico per l’intero Paese. Non si è trattato solo di un processo all’associazione mafiosa in quanto tale, ma di un lavoro che riuniva centinaia di capi di imputazione e centoventi omicidi: “il Maxiprocesso ha rappresentato la forza della legge, la risposta del Codice alla violenza mafiosa”, afferma Grasso. “Non mancano però dei momenti di debolezza e delusione in cui si vacilla, in cui si riflette sui propri sacrifici”; poi subito ritorna forte, anche grazie all’esempio di persone come Falcone, il senso del dovere che impone di continuare e impegnarsi affinché i colpevoli siano assicurati alla giustizia.
Nel libro di Grasso, sottolinea il moderatore Enrico Bellavia, i nomi sono importanti per non dimenticare: quelli degli uomini delle scorte che non ci sono più, quelli dei giudici popolari del Maxiprocesso che hanno giurato con coraggio e partecipato con impegno e dedizione, quelli delle compagne delle vittime che testimoniarono costituendo per Grasso “una rivalsa delle vittime nei confronti dei loro carnefici”. Da qui l’importanza della società civile, perché la mafia si avvale del consenso della popolazione nonché delle condizioni di bisogno che esistono soprattutto al Sud. L’area grigia – la cosiddetta borghesia mafiosa – è per Grasso la forza che veramente ancora la mafia ai territori, cercando di sfruttare le situazioni problematiche e i momenti di debolezza dello Stato a proprio vantaggio. Una seria lotta alla mafia è fatta sì da una rivoluzione popolare e culturale, afferma Grasso, ma altrettanto da un’attenzione maggiore delle istituzioni alle situazioni in cui la mafia può infiltrarsi e proliferare: “la mafia finirà quando cesseranno le dinamiche per cui essa si sostituisce allo Stato nelle situazioni di bisogno per il popolo”.
L’incontro si conclude con un simbolo, un pegno: un accendino appartenuto a Falcone che Pietro Grasso custodisce gelosamente, tenendolo sempre con sé e funzionante. “Rappresenta la forza di Falcone di resistere agli attacchi e alle calunnie, rappresenta la fiamma della ragione che deve continuare ad ardere, la stessa fiamma che voglio accendere nei giovani, per continuane l’opera e migliorare il Paese insieme”.