Esiste una cucina calabrese, definiamola di frontiera, che raccoglie ricette tradizionali di “altre culture” che fanno parte ormai della gastronomia calabrese purtroppo meno nota.
La Calabria è stata oggetto di invasioni e immigrazioni e, nei secoli, ha assimilato anche usi, costumi e ricette che hanno radici molto antiche e legate a territori lontani.
Gli arbëreshë sono emigrati in Calabria, dopo la morte dell’eroe nazionale albanese Giorgio Castriota Scanderbeg, con la progressiva conquista dei territori dell’Impero Bizantino da parte dei turchi ottomani tra il 1400 e il 1700. Tantissimi secoli di storia durante i quali non si sono persi né l’uso della lingua né le tradizioni religiose.
Senza soffermarci troppo su questi aspetti, vi è invece una pagina meno conosciuta che è quella che parla della gastronomia calabrese arbëreshë e che è interessantissima perché contiene tradizioni antiche e sapori legati a un territorio “ospite” che ne rispetta le peculiarità. Si basa soprattutto su minestre o frittate di verdure, e di carni.
La religione e i suoi riti alla base della gastronomia calabrese arbëreshë
La ritualità religiosa è il collante di ogni aspetto della vita sociale arbëreshë e la convivialità della tavola è una espressione di questa. L’influenza mediterranea, sia nelle tecniche di preparazione che nell’utilizzo comune degli ingredienti, come ad esempio frutta secca e miele nei dolci, è evidente. Si tratta di una cucina semplice ed essenziale.
La festa arbëreshë più importante è legata alla commemorazione dei defunti. È una festa mobile, che cade il sabato precedente alla prima domenica di Carnevale, dodici giorni prima delle Ceneri.
Ai morti vengono offerti cibi e bevande, proprio come se fossero vivi. La mattina si benedicono le tombe al cimitero, si cantano le Calimere e si inizia a magiare collivi o panaghie: in sostanza, grano cotto. Il grano è simbolo di vita che si rigenera. Nella tradizione culinaria arbëreshë si fa bollire il grano dopo averlo tenuto a bagno. Si raffredda e si condisce con cacao, caffè, cannella, chiodi di garofano, anche se ogni famiglia ha la sua ricetta. La preparazione si distribuisce in chiesa dopo la benedizione, insieme a pane, che sostituisce l’ostia, e vino.
Oltre al rituale del grano, ci sono i picetulit: stuzzichini di pasta lievitata, fatti con acqua, farina e lievito, pepe rosso, olio e sale; oppure si preparano dei panini con la sagoma di persona, messi su un tavolino in un piatto che si deve benedire davanti l’altare.
La pasta: convivialità al femminile
Tra i primi piatti da citare ci sono le shëtridhlat. Si tratta una lavorazione “d’insieme” al femminile, che vede le donne a ritrovarsi nella cucina per preparare una sorta di gomitolo di pasta fatto di sola acqua, sale e farina.
Si produce un filo lungo molto e sottile che non si deve spezzare. Si ricava un gomitolo attorno alla mano che viene buttato in acqua bollente. Quando viene a galla, si rigira, in modo da farlo venire a galla due volte.
Il condimento è a base di fagioli e peperone crusco e peperoncino cucinati nella pignatta. Oppure ceci o verdure.
Le Dromësat sono “fregole” di pasta arbëreshë. Briciole di farina da cuocere nel sugo di pomodoro.
La preparazione richiama un rito molto antico legato alla religione. Si battezza la farina, poi si benedice la pasta e infine si celebra il matrimonio con il sugo.
I tagliolini cotti nel latte è un’altra preparazione rituale legata alla religione.
Il giorno dell’ascensione, i pastori non pascolano le pecore e si riposano. Di conseguenza, il latte non viene lavorato, così per non buttarlo viene regalato a chi abita nello stesso paese. Nasce una ricetta semplice di tagliolini fatti di acqua e farina cotti direttamente nel latte dei pastori e conditi con formaggio pecorino.
Il Capretto “dimenticato”!
Come secondo piatto c’è il capretto all’harroje, che significa “dimenticatelo”.
Ancora una volta gli usi e le abitudini legate alla terra e al lavoro di essa sono legate alla preparazione di questo piatto arbëreshë. Una ricetta semplice e leggera, da “dimenticare” sui fornelli mentre si fa altro, spesso fuori in campagna.
Si mette sul fuoco una pentola con acqua (l’ingegnosità e la bravura della casalinga sta nel sapere dosare la giusta quantità di acqua in relazione al tempo in cui si prevede di essere impegnata), olio, aglio, prezzemolo e sale, con aggiunta di peperone crusco per dargli colore. Una volta che l’acqua giunge a ebollizione si butta dentro il capretto che dovrà bollire almeno un paio d’ore.
I dolci: la vera forza della cucina calabrese arbëreshë
Il vero cardine della cucina arbëreshë sono i dolci. La preparazione è fortemente legata alle feste. La giuggiulea è un torrone fatto con il sesamo, simile a quello siciliano; i kanarikuj, sono degli gnocchetti conditi con il miele. I cruscoli, fatti solo con acqua, olio e vino. Le maiatka sono una sorta di crêpes dolci o salate, composte di acqua, farina e fiori di sambuco o anche zucchero e uova. I cullurielli, preparati per le grandi occasioni, con acqua, farina e il lievito madre e fritti. Le kasolle megijze, cioè involtini di ricotta. Per finire c’è la ricca pitta chijna, ripiena di frutta secca, uvette e miele, simbolo di una cultura legata alla Pasqua.
Oppure c’è il kabunì. Riso cotto in brodo di montone con uvetta, cannella, chiodi di garofano e bacca di vaniglia.
A questo punto, non resta che dire: ju bëft mirë!
Ovviamente significa “Buon appetito!”