Giorni fa è uscito un articolo molto interessante sul Sole24ore che riguarda un fenomeno fin troppo diffuso: gli hater e l’odio in rete.
Cosa dice la legge sugli hater
La legge n. 205/ 93, detta anche Legge Mancino, parla chiaro: diffondere sui social frasi che contengono discriminazioni e che incitano alla violenza a sfondo razziale è un reato.
I reati possono riguardare idee basate sulla superiorità razziale, sull’odio etnico. Tali crimini posso essere puniti da 6 mesi a 4 anni di reclusione. Ma sono possibili sanzioni ulteriori tipo la sospensione della patente di guida e il divieto di parlare di politica.
Incitare all’odio può avere conseguenze a catena, cioè può stimolare altre persone a compiere altri illeciti e perciò la legge tende a evitare che ciò avvenga. Si prefigge di arginare il problema per evitare che la piaga dell’odio possa contagiare la massa.
Forse una cosa che pochi sanno è che qualsiasi persona può denunciare questi reati.
Questi misfatti sono stati considerati anche nella Convenzione Internazionale di New York.
Le conseguenze psicologiche per le vittime
Ma quali sono le conseguenze di chi l’odio lo subisce?
La virtualità ha concesso a tante persone di divulgare commenti aggressivi. I cosiddetti haters passano dagli insulti alle minacce e ciò che avviene nella virtualità ha delle conseguenze reali.
“Il reale e il virtuale non si distinguono – spiega la psicologa e psicoterapeuta Barbara Forresi – l’aggressione online è una vera e propria aggressione, a tutti gli effetti, e gli esiti psicologici delle parole sulla vittima presa di mira non sono da sottovalutare. Non mi chiederei se l’aggressività è virtuale o reale ma come si manifesta diversamente a seconda di luoghi (e persone) da questo punto di vista Internet è solo il contesto”.
A livello psicologico, le vessazioni, le minacce e gli insulti vengono percepiti come reali, fin troppo reali. La vittima che viene attaccata online sente l’odio, la discriminazione, in maniera concreta. Molto forte è il conseguente senso di ingiustizia e di fragilità.
Riferito alle donne, quando queste vengono prese di mira con attacchi sessisti che arrivano pure a descrivere minuziosamente vessazioni a sfondo sessuale paragonabili allo stupro, è la netta sensazione che non esista un confine fra ciò che è reale e ciò che è virtuale. Una parte del nostro ‘io’ vive anche la virtualità nel profondo con conseguenza devastanti.
I casi di cronaca raccontano molto bene questo disagio per il quale alcune donne sono arrivate al suicidio. Non è solo riconducibile a l’immaturità. Non sono solo adolescenti ad avere scelto la morte, ma anche adulti.
Il cyberbullismo viene vissuto concretamente dalla vittima, che si sente in pericolo, perché anche se ciò che accade è online, magari a opera di sconosciuti, è sinergicamente ed emotivamente influente nel quotidiano.
L’odio verso i Vip
A proposito di sconosciuti, ci sono gli haters che colpiscono personaggi famosi che generano una violenza inspiegabile, ma soprattutto ‘contagiosa’.
“Il filosofo tedesco Byung-Chul Han ha detto che la rete è il luogo dell’anonimato, del non nome e dunque del non rispetto – dice Barbara Forresi – perché il rispetto è legato a un nome, a un volto, a una persona. La regolazione emotiva nelle relazioni arriva dallo sguardo dell’altro, cosa che non avviene negli scambi online. Lo sguardo, le espressioni del volto, il tono di voce, la postura hanno a che vedere con il rispetto: contrariamente alle interazioni vis a vis, quelle online non permettono di vedere le emozioni scritte sul volto di chi riceve le nostre parole”.
“Se abbandonarsi al discorso d’odio è facile, Internet lo semplifica ulteriormente: aumentano gli spettatori, si moltiplicano i pretesi, si riducono le occasioni di punizione, la riprovazione sociale è più blanda, i tempi di risposta rapidissimi e non c’è la possibilità di vedere negli occhi e nel volto dell’altro la reazione alla nostra violenza”.
Gli stereotipi e i pregiudizi alla base del comportamento degli hater
La realtà è che le piazze virtuali di internet fanno emergere ed amplificano ciò che già esiste ed è palese nella società ‘reale’.
Spiega ancora Forresi: “Si nutrono di stereotipi e pregiudizi come il genere o la cittadinanza, dinamiche di esclusione, polarizzazione delle idee espresse (che in gruppo diventano estreme), de-umanizzazione delle vittime e deresponsabilizzazione sociale”.
L’hater cerca approvazione dagli altri e quando la trova è altamente probabile che il comportamento si riproponga in seguito.
“I gruppi che si accaniscono sui social contro l’hater di turno replicano quanto combattono e contraddicono quanto affermano, ossia il diritto al rispetto reciproco, al dialogo, all’umanità, alla comprensione. La violenza è forse meno violenta se è in difesa di qualcuno?”.