La riflessione domenicale del presidente della Cec Mons. Bertolone

MONS. BERTOLONE
Mons. Bertolone Arcivescovo metropolita di Catanzaro-Squillace

Mons. Vincenzo Bertolone: «Restiamo umani»

«In vita mia non ho mai odiato nessuno, nemmeno tra quanti ho combattuto nella Resistenza, alla quale avevo aderito non per odio ma per amore».
Con la forza di una carezza colpisce, questa affermazione di Benigno Zaccagnini, esponente politico cattolico di primo piano nell’Italia postbellica. Colpisce, sebbene delicata, perché è come uno schiaffo al volto di un’umanità che fatica a riconoscersi, sperduta nell’odio che dice di combattere con l’amore che non manifesta.
Il coronavirus, a ben vedere, più che aggravare le cose, ha contribuito a portarle alla luce. Sarebbe ben poca cosa se il disvelamento avesse riguardato solo il mondo dei social, dove un po’ tutti – a parte eccezioni sempre più esigue – fanno a gara a chi è più becero nei commenti, nelle affermazioni, nei giudizi che – impietosi e truci – non si negano a nessuno, tranne che a se stessi. Il fatto è che imponendo il distanziamento sociale per far salva la vita, il Sars cov 2 ha dimostrato ben altro: che in fondo, a stare lontani dagli altri, si ritiene di star bene. Quasi si gode.
Questa stagione s’era aperta, quando ancora le bare sui camion in mesto corteo per le strade di Bergamo erano di là da venire, con le serenate dai balconi, al grido di “andrà tutto bene”. Era una finzione, come finzione s’è purtroppo dimostrata – va da sé, per responsabilità diffusa – la pretesa unità invocata per tutelare le sorti d’un popolo e porre le basi della possibile rinascita. Nulla. E passata la Pasqua, a mano a mano che il giorno del ritorno alla presunta, possibile, anche minima normalità s’è avvicinato, sono esplosi timori, ansie, contraddizioni. In molti casi, ostilità, come se il prossimo fosse un nemico.
Fa rumore, tutto ciò, e copre con le sue voci stridule il tanto bene che in silenzio è emerso ma è ancora fragile, come una piantina appena sbocciata. È l’esempio, quello sì ancora troppo poco virale, di chi – pur in giorni difficili – ha dimostrato la capacità di reagire positivamente alle avversità, testimoniando il forte bisogno di relazione che del genere umano è proprio, ma l’uomo pare aver dimenticato.
Pure di fronte alla moltitudine di sciagure che s’è ritrovato ad affrontare, magari dopo esserne stato causa, l’uomo ha urlato l’inizio di un tempo nuovo, senza mai essere conseguente. Così facendo, ha lasciato che la libertà degradasse da bene collettivo a proprietà individuale. Non c’è allora alternativa all’unica strada percorribile: rinunciare ad un po’ di sé per venir fuori dalla spirale dell’individualismo e dell’egoismo e riconoscere la comune appartenenza all’umano, nel solco del nuovo umanesimo di cui tre anni fa parlava in un suo libro Michele Ciliberto: «Credo che oggi il nuovo umanesimo debba impiantarsi in una visione dell’uomo che dissolva antiche barriere, antichi confini di razza, di religione, di visioni del mondo, di antichi sensi comuni. Esso può e deve nascere da un radicale riconoscimento della differenza e del suo valore, nella qual cosa consiste peraltro uno degli insegnamenti più alti dell’umanesimo storico, cioè quello che si è affermato in Italia ed Europa tra Quattrocento e Cinquecento».