Per molti anni, soprattutto per motivi storici legati alla tradizione contadina, nelle ‘ndrine, le donne legate alla ‘ndrangheta hanno avuto un ruolo marginale, relegato alla casa e alla cura della famiglia.
Almeno formalmente…
Oggi, invece, è certo che le attività di alcuni clan calabresi sono gestite proprio dalle donne. Secondo il giudice Gratteri, sono le donne delle ‘ndrine che comandano, allevando figli tra faide e vendette e proponendo uomini all’interno delle organizzazioni criminali.
Sono delle vere e proprie catalizzatrici, gestendo “cose da uomini” spesso con molta più ferocia e determinazione.
Il ruolo che non è mai stato realmente secondario
Si potrebbe datare questo salto “di qualità”, da donna ombra a capi di associazioni mafiose, al periodo degli anni Settanta. Non per il movimento femminista, poiché in una Calabria fortemente legata a valori tradizionali esso non intacca, ma per una questione molto più pratica legata al traffico della droga. Le donne, fino ad allora, raramente venivano condannate e inoltre potevano nascondere gli stupefacenti nell’apparato genitale, simulando anche gravidanze.
Le donne di ultima generazione non sono più le contadine sottomesse e analfabete; hanno studiato e hanno competenze utili al nuovo interesse per la mafia dove non servono forza fisica e particolare violenza. Il riciclaggio di denaro sporco e il business della droga sostituiscono le faide tra famiglie per interessi legati al territorio e all’onore; le donne ottengono una emancipazione criminale, riconfigurando un ruolo nel profondo.
Ciò avviene soprattutto nei clan del nord Italia dove le donne calabresi sono più indipendenti ed evolute. E avviene anche quando la moglie di un boss incarcerato assume ruoli di comando durante l’assenza del marito.
Siamo molto lontani dall’immagine tradizionale e patriarcale legata alla donna calabrese del clan. Almeno nella forma. All’interno delle organizzazioni la figura femminile aveva un ruolo secondario, ma determinante.
L’organizzazione criminale nel suo interno e le donne legate alle ‘ndrine
“Peraltro, sin dai primi anni di vita dell’organizzazione, esigenze molto pratiche portano a dover infrangere questa distribuzione così rigida dei ruoli, ed a cercare compromessi.
I clan devastati da arresti e omicidi per vendetta devono coprire le posizioni di organigramma, e quindi si inventa un percorso contorto per consentire, in casi eccezionali di emergenza, l’affiliazione delle donne esterne al clan familiare (quelle che fanno parte della famiglia sono già considerate interne alla logica mafiosa) dimostratesi particolarmente abili ed affidabili, che nella rigida struttura delle Locali assumono la denominazione di “sorella d’omertà”.
Ci sono casi documentati già dai primi del Novecento. Per salvare le apparenze di una società onorata composta da soli uomini, e quindi per salvaguardare la sostanziale ipocrisia patriarcale, esse si devono affiliare indossando, durante la cerimonia, vestiti da uomo.
Rimangono inoltre legate a ruoli puramente subordinati, poiché la leadership è sempre in mano agli uomini, tanto che sino alla legge Rognoni-La Torre del 1982 esse non vengono mai, in pratica, considerate membri di organizzazioni ‘ndranghetiste, anche quando svolgono consapevolmente uno dei citati ruoli attivi, commettendo di fatto dei reati. Nei processi, anziché essere condannate per associazione a delinquere, vengono infatti generalmente accusate del più mite reato di favoreggiamento.” Riccardo Achilli
E oggi, abbandonate le ipocrisie formali, le ‘ndrine hanno potere decisionale, gestendo le organizzazioni con posizioni speciali e “alla pari”.