Se di oscurantismo si dovesse trattare allora avremmo trovato la ragione per cui tante attività gestite da cinesi stanno abbassando le serrande.
I clienti diminuiscono giornalmente: negozi e ristoranti sono deserti con proprietari dietro i banconi in attesa di chi non si lascia sopraffare da questa vera e propria fobia di infettarsi.
Come in un B-movie americano
Sì, anche i termini sembrano quelli apocalittici di film hollywoodiani (infettati, contagio, epidemia, pandemia, ecc) in cui virus sfuggiti al controllo in qualche laboratorio, su isole sperdute nell’oceano, generano il panico e stragi. Ma qui di trame cinematografiche e di eroi che sfidano la natura non ce ne sono. La realtà è un’altra e si chiama “sinofobia” condita di pregiudizi e di qualche fake news che non guasta mai.
È la fotografia di un’Italia legata a preconcetti, paure e vere e proprie psicosi . Prima erano i barconi, ora sono gli occhi a mandorla. Sì, perché nel mirino finiscono anche giapponesi e filippini. Ma per chi neanche sa quanto sia grande la Cina e ignora i suoi confini, cosa importa se siano di coreani o di vietnamiti quegli occhi a mandorla?
Il razzismo ha trovato un altro canale per comunicare odio e xenofobia. Altro che influenza! Così nel web circolano video girati chissà dove e dalle fonti non dichiarate che generano astio e degenerano in vere e proprie caccia alle streghe. E a seguire, frasi di odio e di disprezzo nonché il banalmente conseguente: “E allora i negozi italiani che chiudono?”.
Già, “prima gli italiani” non manca mai in una guerra di fazioni senza senso. O meglio, il senso c’è: “Morte tua, vita mia”, soprattutto se sei diverso da me.
E se le streghe cattive fossimo proprio noi italiani? Basterebbe leggere l’articolo pubblicato su La Stampa per capire quanto ciò sia vero.
Il virus parla italiano non dialetti cinesi
Il panico da contagio del coronavirus non parla il mandarino, ma italiano e gira pure per il mondo; poco importa se il Decreto del Ministero ha disegnato le zone rosse e distinto da quelle verdi: se si incrocia un cinese per strada, si prendono le distanze, o peggio, questa comunità si ritrova a giustificarsi dichiarandosi “sano” e che la Cina l’ha vista solo su una mappa.
A Roma, chiude fino ad aprile, uno dei più famosi ristoranti cinesi i cui proprietari sono ormai romani e ben integrati. Eppure, in molti ristoranti cinesi c’era sempre tanta gente che, per pari prezzo, optava per un pasto orientale a una pizza. Sembra una vita fa, ma sono passate solo poche settimane da quando questa vera e propria follia sta distruggendo l’economia di una comunità di gente che lavora sodo e che vive da anni in Italia, con figli che parlano pure il dialetto locale e conoscono il cinese per via dei genitori.
Il film che si sta girando in Italia ha un finale tragico. I danni che si stanno creando non sono pochi, ma nonostante in tantissime parti d’Italia i contagi si possono contare sulle punte delle dita e sono addirittura assenti, è la paura a prendere il sopravvento. Il vero virus, il vero contagio sta avvenendo fuori da ogni laboratorio e si chiama “ignoranza” ed è altamente trasmissibile.
I comportamenti che di razionale non hanno nulla portano solo a discriminazioni, una scusa affinché ancora una volta il razzismo possa trovare altri argomenti per rafforzarsi.
C’è un libro, bellissimo, di Jose Saramago dal titolo “Cecità” in cui l’autore sembra abbia anticipato questo periodo. Si vede spesso citato e giustamente.
“Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, ciechi che, pur vedendo, non vedono”
La frase, ormai famosa “Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, ciechi che, pur vedendo, non vedono” racconta la follia che ha infettato milioni di italiani.
Così, famelicamente si svuotano supermercati, si comprano litri di Amuchina, si riempiono le case di mascherine in attesa dell’atto finale visto e rivisto in film castrofici.
Immaginando di dover affrontare zombie e difendere free zone con arnesi primordiali.
“Tutti noi soffriamo di una malattia, di una malattia di base, per così dire, che è inseparabile da ciò che siamo e che, in un certo modo, fa ciò che siamo, se anzi non è più esatto dire che ciascuno di noi è la propria malattia, per causa sua siamo così poco, così come per causa sua riusciamo a essere tanto”
Ho chiesto a un ragazzo cinese che gestisce un bar, quasi sempre vuoto, cosa pensasse di questo periodo, ha detto laconicamente: “Va bene.”
No, non va bene per niente.
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