Quando ero una bambina andavo spesso a San Pietro Magisano. Una frazione, un punto di passaggio per raggiungere altri paesi più grandi che nei secoli passati era noto ai viandanti; una sorta di stazione di posta, forse anche per la transumanza del bestiame.
Con l’auto di mia zia – una 850 color nocciola – io e i nonni attraversavamo le montagne della presila sopra Catanzaro, dove si incrociavano paesi arroccati e altri addirittura abbandonati a sé stessi e sospesi nel tempo. Una strada piena di curve, ma anche di fonti d’acqua e di un santuario che indica la via… della luce.
L’aria frizzantina della Sila incomincia a farsi sentire a San Pietro e infatti raggiungere i villaggi dell’antica “Taberna” di Mattia Preti non è poi così difficile. Basta fare un po’ di strada e si arriva al Grande Albergo delle Fate e al bar rotondo. Lì veramente la città è solo un puntino lontano e insignificante.
San Pietro Magisano, come altri paesi calabresi, ha perso tanti abitanti segnati dalla sorte dell’emigrazione. Si può dire che li abbia persi da sempre, svuotando i terreni, e c’è pure chi non è più tornato dall’America.
Da un po’ di anni, invece raggiungere questo borgo è meno difficile: una strada che percorre il greto di una fiumara ci porta direttamente al suo cuore, alle due querce secolari, e ora il paese sta ora vivendo una nuova vita.
Ci sono dei borghi in rinascita grazie all’impegno di persone che si attivano con iniziative in cui la cooperazione e la sinergia di più menti azionano interruttori che riaccendono una luce spenta da troppo tempo.
Ed è ancora di luce che si parla.
Il mese di settembre porta la magia della luce dentro le case di San Pietro e tra i suoi vicoletti tortuosi, fatti di gradini antichissimi. La festa religiosa legata alla celebrazione della Madonna della Luce l’ho sempre vissuta con piacere quando ero una bambina.
La casa dei nonni materni era un viavai di parenti e di vicini di casa, le bancarelle avevano anche i giocattoli e i dolci tipici. Certo, li avrei trovati anche a Catanzaro, ma lì bambole e caramelle avevano un’anima diversa. Poi c’era Il palco dei musicisti, le luminarie che facevano vivere di attese. Ricordo il bar che vendeva delle gomme da masticare rosa al cui interno potevi trovare il messaggio “Ne hai vinta un’altra”.
Sebbene la fine di agosto sia idealmente la fine delle vacanze, a San Pietro le vacanze iniziavano all’inizio di settembre. L’aria di festa era assicurata e non c’era la nostalgia del mare e della spiaggia.
Oggi è un po’ diverso, ma c’è chi la luce la tiene accesa affinché il paese non venga dimenticato anche per esorcizzare la maledizione delle fate dell’acqua vecchia.
Luci su San Pietro è alla sua seconda edizione: il progetto di LuceFest per non perdere la memoria
Le pareti delle case ospitano i murales che poi sono messaggi di vita passata. La magia si mescola alle tradizioni, così tra leggende di fate, di acqua e inchiostro, e di “imparrettati”, c’è anche la dedica al personaggio più famoso del paese: il regista Gianni Amelio che da San Pietro Magisano è partito tanti anni fa per arrivare alla notorietà in tutto il mondo.
I murales accolgono i curiosi di passaggio e raccontano un’anima diversa, quasi di rivincita o, se vogliamo, di sfida.
La piazza unisce giovani artisti e intellettuali. È l’occasione per presentare libri, per approfondire temi a sfondo sociale e per raccontare storie. Un’apertura verso il mondo esterno, un’occasione per diventare centro e non più periferia.
Per crescere dall’interno.
Il cuore di San Pietro non è cambiato molto. Il santuario sorto mille anni fa è ancora lì. La sua storia è fortemente legata non solo agli abitanti di San Pietro e oggi esso assiste e scrive una nuova pagina della sua vita. Testimone che i tempi sono sì cambiati, ma non nella sostanza.
La Minestra della Madonna della Luce: una ricetta unica e antica
Se c’è una cosa che non dimentico sono i profumi provenienti dalle cucine. Massaie intente a preparare pranzi con quello che donava la terra. E poi conserve, vini e taniche di olio. Mazzi di talli e ‘mparrettati messi in fila su tavole di legno.
Ricordo ancora mia nonna materna intenta a preparare la minestra della Madonna della Luce. Credo fosse tra il 7 e il giorno 8 di settembre. Puntualmente ogni anno c’era questo rito. Una tradizione di origine contadina, ma che tantissimi anni fa era sicuramente considerato un pranzo ricco, da poter fare solo una volta l’anno, vista la presenza della carne. Una minestra dal sapore autentico, una ricetta introvabile altrove, tramandata oralmente, che meriterebbe un marchio di provenienza per proteggerla da eventuali falsificazioni. Credo che non ne esista solo una versione ufficiale. Ogni famiglia ne ha una diversa sebbene gli ingredienti principali siano gli stessi: Il brodo di carne, la zucca lunga, la cipolla, le polpettine fritte e il cavolo cappuccio. Un piatto unico, semplice, ma di sostanza come era logico fare, visti i tempi.
Negli ultimi anni, ho cercato di risalire a una ricetta diciamo… definitiva, ma non l’ho trovata. C’è chi usa il brodo di carne di vitello, chi quello di capra. Ogni famiglia sperimenta la propria ed è giusto così. Ma in linea di massima, la ricetta è semplice sebbene un po’ elaborata nei passaggi. Il risultato è eccezionale. Per quanto mi riguarda la farei in due giorni consecutivi affinché si possa sgrassare meglio il brodo e in modo da rendere le polpettine più saporite.
– Pochi ingredienti, devozione e tanto amore per le origini
Preparare come base nutriente un brodo di carne di vitello con all’interno solo la cipolla bianca e il sale. In questo modo si potranno sprigionare i sali minerali e le vitamine, esaltando le verdure. L’idea di fondo è quella di unire la sapidità della carne alla leggerezza delle verdure. I pezzi di carne saranno quelli adatti alle cotture lunghe: muscolo, biancostato e ossa. Sgrassare il brodo spesso perché più è trasparente più è perfetto e adatto ad accogliere gli altri ingredienti. In realtà, si potrebbe tentare anche di chiarificarlo, ma lo eviterei perché dubito fosse una tecnica usata dalle massaie di una volta. Forse, preparandolo il giorno prima, i grassi in superficie saranno più facili da togliere.
Fare bollire la zucca lunga tagliata a tocchetti. La zucca cosiddetta siciliana ha una buccia coriacea. Se la zucca non è piccola la cottura totale sarà veramente difficile. Quindi, se la buccia risulta troppo dura, consiglierei di sbucciarla magari con un pelapatate e di lasciare ovviamente la sua polpa.
A parte, cucinare il cavolo cappuccio o verza che sicuramente ha un sapore più deciso della zucca lunga. Per non perdere le sue caratteristiche io lo farei stufato in padella con un po’ di acqua e sale. In questo modo, le vitamine non si perderanno e manterrà la sua croccantezza.
Con della carne macinata formare delle polpettine e friggerle. Non aggiungerei né uova né pane o formaggio. Farei solo carne macinata di vitello e sale per non “contaminare” i sapori originari. Per friggere, io uso l’olio di semi di arachidi, ma immagino che per tradizione si usasse l’olio evo, tra l’altro ottimo a San Pietro. Una cosa importante: le polpettine devono restare bianche. Quindi, toglierle dall’olio a metà cottura sarebbe ideale.
A questo punto, unire tutti gli ingredienti e lasciare sobbollire per almeno un’ora.
Il risultato finale sarà una minestra dal colore tenue e dal sapore strepitoso.
Io l’ho mangiata anche il giorno dopo e il sapore era anche più completo e saporito, come avviene normalmente per le zuppe.
Finora non ho trovato una persona alla quale non sia piaciuta e sono sempre disponibile a capire se il procedimento da me adottato sia quello giusto.
E allora, non resta da dire: E festa sia!
Per maggiori informazioni visitare il sito di LuceFest
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