Crispeddhi: curiosità sul simbolo della Vigilia di Natale a tavola

Crispeddhi catanzaresi (fonte: ricetta sprint)

Non c’è casa in Calabria in cui, sin dal mattino della Vigilia di Natale, non si inizino a preparare i crispeddhi per il pranzo, in attesa del cenone serale. Questo particolare fritto, all’apparenza semplicissimo da fare, in realtà necessita di una buona esperienza che riguarda la consistenza della pasta e la sua lievitazione. In compenso, gli ingredienti sono reperibili facilmente: farina, acqua, sale, patate bollite della Sila, acciughe, lievito e… tanto olio per friggerle!

Per diritto di cronaca dobbiamo dire che esistono delle varianti e ha anche nomi diversi. Alcune ricette hanno, non solo l’impasto differente, ma anche il contenuto interno. Alcune tradizioni non prevedono l’uso della patata bollita e l’acciuga, ma aggiungono – a piacere – ‘nduja o pomodori secchi o baccalà. Oppure nulla e vi assicuro che sono buone anche semplici! Ad esempio, nella provincia di Cosenza, i crispeddhi (al femminile)- chiamate i cuddhurieddi (al maschile) – sono addirittura dolci e si preparano nei giorni di festa, tutto l’anno. In alcuni paesi si preparano a San Martino, in occasione della festa del vino. Diciamo che però l’uso più comune è di regola durante le festività natalizie: L’Immacolata, Santa Lucia, la vigilia di Natale e di Capodanno e l’Epifania. Ma ciò non vieta di prepararle in qualsiasi giorno dell’anno visto che sono buonissime! Personalmente, propendo per questa ultima ipotesi.

Grispelle o crispelli, cuddrurieddhi, zeppole, zippuli, fritti ‘e Natala, con patate o senza: insomma, chiamatele e fatele come più vi garba, ma credo che si è tutti d’accordo nel dire che questi fritti, il cui profumo è inconfondibile, siano un simbolo di festa e di gioia.

Crispeddhi: alcune curiosità

In alcune zone della Calabria pare che il capofamiglia sia addetto alla prima frittura, buttando nell’olio bollente la prima zeppola, a forma di croce. Non so se attualmente sia molto diffusa questa usanza, ma è sicuramente verosimile visto le famiglie patriarcali di una volta.

Amara chira casa ch’un si fria” cioè: è triste la casa in cui non si frigge. Ecco perché al rito della frittura delle crispelle si attribuisce gioia e abbondanza da distribuire ad amici e parenti, ma anche ai vicini di casa. Nelle famiglie segnate dal lutto, di regola, non si friggeva poiché la tristezza della perdita di un congiunto non poteva essere infranta dal senso di festa dei fritti. Fortunatamente, questa usanza sta finendo: almeno il Natale potrebbe portare speranza e un po’ di serenità a chi già ha avuto una sorte avversa.

Un po’ di storia e costume

L’usanza di consumare a Natale dolci preparati con la farina di frumento potrebbe risalire agli antichi Romani. Già Plinio il Vecchio nella sua Naturalis historia parlava di focacce in uso il giorno del Natalis Solis Invicti: «… e si confezionavano le sacre e antiche frittelle natalizie di farinata…».

La festa del Natalis Solis Invicti, la divinità solare dell’Impero Romano, fu fu stabilita dall’imperatore Aureliano nel 274 d.C. e si celebrava il 25 dicembre, qualche giorno dopo il solstizio invernale, quando il sole nuovo saliva all’orizzonte.

Era la conclusione anche dei Saturnali, la festa dedicata a Saturno, che iniziavano il 17 dicembre, durante i quali i romani gozzovigliavano un po’ e organizzavano banchetti, accendevano candele, si rappacificano, si scambiavano piccoli doni e giocavano perfino a tombola.

A queste feste importanti partecipavano attivamente anche molti cristiani e, nel IV secolo, la Chiesa romana decise di celebrare il 25 dicembre anche il Dies Natalis Domini, il Natale di Gesù, il Sole che illumina con la sua Luce tutto l’Universo.

Un ricordo dell’antica concezione solare delle feste natalizie potrebbe essere anche la forma dei dolci di Natale calabresi: quella sferica, che ricorda il Sole, o ad anello, con i lembi finali che si sovrappongono, esattamente come l’Uruboros, il serpente che si morde la coda, simbolo in tutta l’area mediterranea del principio cosmico della vita.” (Annamaria Persico)

Si tratta quindi di un cibo povero, legato alle nostre tradizioni che andrebbero preservate, custodite e anche diffuse. I suoi ingredienti semplici facilitano la preparazione ovunque, nel mondo. Ma occorre dedizione, passione e pazienza. Così facendo, i crispeddhi si potranno preparare anche nell’altro emisfero o ovunque ci si voglia dedicare. 

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