Sono passati ben 51 anni da i moti di Reggio Calabria, fatti che divisero l’Italia in due e che portarono a una guerriglia vera e propria per le strade di una città che vide morti e feriti.
“Si cumbatti pu’ un capaluogo”
Il 5 luglio 1970, Piero Battaglia, sindaco democristiano di Reggio Calabria, rese noto il suo “Rapporto alla città”, informando i cittadini dell’accordo politico-istituzionale trattato a Roma, sull’asse Catanzaro-Cosenza, ai danni di Reggio Calabria.
Il tema centrale della diatriba tra i due capoluoghi fu la decisione presa a livello nazionale di eleggere come sede della Regione Calabria la Città di Catanzaro, ignorando totalmente la storia e l’importanza politica della Città di Reggio Calabria. Uno scontro tra Titani che porterà a eventi tragici.
Tale scelta fu caldeggiata da Riccardo Misasi (DC) e Giacomo Mancini (PSI), due politici cosentini molto influenti a livello nazionale, che furono ritenuti i veri responsabili del furto del capoluogo di regione.
Tale intervento politico portò la Città di Reggio Calabria a essere teatro di una rivolta popolare che durò ben otto mesi e che rese necessario l’intervento dell’esercito.
Una serie di manifestazioni dai contorni torbidi
Furono otto lunghissimi mesi, una serie di rivolte urbane che videro anche il collegamento a una scia di eventi tragici come il deragliamento del treno del Sole (sei morti e circa sessanta feriti) e un incidente stradale in cui persero la vita cinque anarchici in un contesto di dubbia matrice tra ‘ndrangheta, servizi segreti, massoneria e neofascismo.
Una semplice rivolta popolare in cui dall’esprimere il malumore per il torto subito si passò in un crescendo di atti violenti in una guerriglia senza precedenti.
Il 14 luglio 1970 nacque un corteo spontaneo tra abitanti del quartiere di Santa Caterina guidato da Natino Aloi. Inizialmente, il gruppo era composto soltanto da sei cittadini, ma alla fine si trasformò in un corteo di trentamila persone. Ben presto, la protesta si trasformò in sommossa e rivendicazioni politiche.
In piazza confluirono famiglie, studenti, pensionati, ma anche persone che usarono la piazza per inasprire gli animi. Da quel momento in poi, l’intera città si ritrovò in cortei che sfociavano sempre in scontri con le forze dell’ordine che avevano il compito di reprimere le sommosse anche con metodi poco “delicati”. Barricate e poi carri armati e militari in assetto antisommossa fecero della città di Reggio Calabria un campo di battaglia in cui persero la vita cinque persone. Ma le sommosse videro anche duemila feriti, migliaia di arresti e denunce e danni per miliardi di lire.
Reggio Calabria senza interlocutori
Reggio Calabria si ritrovò a protestare per recriminare, ma senza avere una risposta a livello nazionale, dove si era deciso il suo destino.
Infatti, il terzo Governo Rumor si era dimesso dopo appena 131 giorni. Solo il 6 agosto 1970 si ebbe un nuovo esecutivo, guidato dal democristiano Emilio Colombo, ma la miccia era già accesa da un pezzo e trovare una soluzione sembrava quasi impossibile.
Nel frattempo, durante questo vuoto, i “Fatti di Reggio” divennero noti a livello nazionale ed ebbero modo di riempire le prime pagine dei quotidiani italiani. La guerriglia urbana si trasformò presto in una lotta del MSI e della destra estrema. I nomi di Ciccio Franco, Renato Meduri e Antonio Dieni, nonché quello dello stesso Aloi, vennero spesso citati all’interno dei giornali e in televisione, identificandoli come leader delle sommosse.
Ciò che sarebbe d’obbligo sottolineare è che i moti di Reggio Calabria furono una sorta di campo di addestramento della destra estrema ed eversiva di Junio Valerio Borghese, Franco Freda, Stefano Delle Chiaie. Nomi altrettanto noti per altre vicende di quel periodo storico. Tanti giovani neofascisti italiani accorsero a Reggio, si trattava di universitari missini del Fuan, ma la rivolta conobbe anche la partecipazione e il sostegno di una parte della sinistra “proletaria”.
Lo slogan utilizzato negli ambienti della destra e nell’Italia neo fascista “Boia chi molla!” divenne identificativo delle sommosse urbane, riconoscendo il sindacalista della CISNAL Ciccio Franco padre dei moti della città di Reggio Calabria e dei comitati di agitazione.
I compromessi e le promesse
Fu una rivolta popolare e trasversale a livello politico che vide non solo scioperi diffusi, ma anche episodi violenti in cui la polizia dovette usare anche i mitra. Per tanti mesi la città fu barricata, devastata e anche isolata. Solo nel febbraio del 1971, il Governo italiano mise fine alle sommosse con la forza, inviando l’esercito e i carri armati, ma non mancarono le promesse per cercare di calmare gli animi reggini.
Promesse contenute nel famoso “Pacchetto Colombo”, ma a oggi non mantenute soprattutto riguardo i posti di lavoro che si intendevano creare nel centro siderurgico a Gioia Tauro e in uno stabilimento della Liquilchimica a Saline Joniche.
Ciccio Franco: «Questa è la nostra rivolta, il primo passo della rivoluzione nazionale»
Ciccio Franco fu per un periodo latitante, ma la giornalista Oriana Fallaci riuscì a intervistarlo nel suo rifugio segreto nel febbraio 1971. Questo è quanto le raccontò riguardo i moti di Reggio Calabria.
«Specie nei quartieri popolari v’erano tanti ragazzi che ritenevano che Reggio potesse esser difesa dai partiti della sinistra o di centro-sinistra. E, dopo la posizione assunta dai partiti di sinistra e di centro-sinistra contro Reggio, questi ragazzi hanno ritenuto di dover rivedere la loro posizione anche politicamente. Molti, oggi, fanno i fascisti semplicemente perché ritengono che la battaglia di Reggio sia interpretata in modo fedele solo dai fascisti.»
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