Mons. Bertolone: “La lezione delle centomila croci”
«Dalla mancanza di un orientamento capace di illuminare la nostra epoca noi dovremmo concludere che siamo capaci di apprendimento soltanto se colpiti da catastrofi».La lezione di Jürgen Habermas trova riscontro nella realtà: c’è voluta una pandemia perché si iniziasse almeno a prendere atto delle iniquità e delle falle di un sistema che da tempo manifestava la sua fragilità discriminatoria. In Italia, nel giro di un anno, il Sars Cov 2 ha piantato 100.000 croci. Un numero che ogni ora aumenta, perché il contagio è ancora ben lungi dall’essere sconfitto: occorre tornare al secondo conflitto mondiale, per reperire un termine di confronto adeguato per quanto poco rispondente, dal momento che la guerra è comunque altra cosa. C’è però un dato che unisce tutte le esperienze di dolore collettivo: di fronte alla morte improvvisa, alla malattia inesorabile, istintivamente l’uomo alza gli occhi al cielo. Compie il gesto naturale della preghiera, si affida all’Invisibile affinché protegga ciò che se n’è andato dagli occhi. Sperimenta insomma che la salute è importante, fondamentale, ma che da sola non basta. E s’accorge ancora della propria finitudine sociale: tutti, del resto, in questi mesi, abbiamo avuto modo di riflettere su quanto siamo dipendenti gli uni dagli altri. Anche e soprattutto da coloro che svolgono lavori umili, ma essenziali, che l’attuale sistema economico relega in secondo piano.
Può essere questa una delle strade per il recupero di forme di solidarietà che oggi appaiono smarrite, e non certo per effetto della Covid-19, anche se lo choc della pandemia lascerà ferite profonde: un orizzonte stabilmente corto induce alla rassegnazione, i progetti di vita assumono l’impalpabilità dei sogni, i giovani si rifugiano nella passività, piegati sul consumo dell’istante. Eppure, ciò che conta è il riaccumularsi di un lascito civile, quello che è andato e che va maturando nel corso della pandemia, non facilmente liquidabile, che riafferma come irrinunciabile l’urgenza di tornare a fare (e a essere) società.
Proprio per le possibilità di riscatto che porta con sé, il tempo che viviamo è straordinario, ma richiede lungimiranza, la capacità di alzare lo sguardo al di là della contingenza. È poi indispensabile la speranza, da coltivare come pianta delicata e tenace. Indispensabile è anche la carità, il prodigarsi per chi si scorge nel bisogno. Ma può essere utile pure un ripasso del laicissimo significato delle virtù cardinali: la necessità di una fortezza paziente e serena, il senso della giustizia come sguardo buono dalla mia famiglia all’umanità, la pratica consapevole della prudenza, la sobrietà sorridente insegnata dalla temperanza.
Insomma, si salverà solo chi saprà guardare davvero al futuro, indicando la via per accompagnare il mondo lontano dalla risacca della sua crisi. La vera trasformazione deve avvenire nella mente e nel cuore di ognuno: se la voglia di cambiamento diventerà tratto comune e se ci si farà illuminare dalla sapienza e dalla luce divina, la società alla fine cambierà.