“La teoria economica convenzionale, per ricoprire il ruolo di guida dell’impresa, ha escogitato quell’essere umano a una dimensione che è l’imprenditore. Lo ha isolato dal resto della vita, separandolo dalla sfera religiosa, da quella delle emozioni, da quella politica e da quella sociale, così che non gli resti che occuparsi di una sola cosa, la massimizzazione delprofitto”.
Vale la pena ripartire dalle parole dell’economista Muhammad Yunus, premio Nobel per la pace, per chiedersi che tipo di uomo abiti il nostro tempo. A giudicare dai fatti terribili di Stresa, pare si sia andati ben oltre la figura dell’homo oeconomicus, delineata per la prima volta da John Stuart Mills e coincidente con l’identikit di chi predilige la razionalità e cerca di ottenere il massimo vantaggio per sestesso, tenendosi alla larga da ogni valore sociale.
Più che chiedersi cosa siamo diventati, o forse siamo sempre stati, è il caso di domandarsi, alla luce delle ingiustizie e disuguaglianze caratterizzanti la società contemporanea, se e quale svolta sia possibile immaginare, rispetto al sistema di sviluppo che orienta ormai in tutto e per tutto la vita di ognuno. Al di fuori dell’eterna e irrisolta disputa tra capitalisti e anticapitalisti, che nella polarizzazione tra i fronti contrapposti ha portato ad un paludoso immobilismo in cui l’individualismo più sfrenato s’è diffuso anche quando vestito da cooperazione, la necessità è evidente, ed è stata ben delineata da papa Francesco: <<È necessario e urgente un sistema economico giusto, affidabile e in grado di rispondere alle sfide radicali che l’umanità e il pianeta si trovano ad affrontare>>.
V’è, in questa prospettiva, l’antidoto ai mali indicati da Yunus: un cammino nel solco di una generosa solidarietà, per favorire il ritorno dell’economia e della finanza ad un approccio etico avente quale linfa la tutela della persona umana, cercando modi – usando ancora le parole del Santo Padre – per rendere il capitalismo <<uno strumento più inclusivo per il benessere umano integrale>>. Non è il richiamo ad una riforma dal di dentro, più volte invocata, qualche volta tentata e mai riuscita, ma un chiaro invito all’elaborazione di una strategia di superamento di un sistema economico colmo di aberrazioni. Già Paolo VI, con la Popolorumprogressio, aveva gettato le basi per il graduale consolidamento di un nuovo umanesimo. Giovanni Paolo II, attraverso la Laborem exercens, aveva respinto il configurarsi del lavoro come merce. Benedetto XVI, poi, nella Caritas in veritate, aveva denunciato la finanza fine a sestessa, la speculazione, l’accumulazione capitalistica, richiamando per contro la centralità della figura dell’imprenditore legata però alle sue responsabilità sociali. Il filo rosso che tutto lega è nella necessità di far prevalere l’interesse sociale nell’azione economica sul calcolo utilitaristico e sul concetto di una società competitiva e atomizzata, promuovendo l’idea che occorra sostenere la cooperazione tra uomini, popoli e nazioni e coltivare una forte sensibilità ambientale per frenare gli appetiti predatori. Questa visione può contare, ad oggi, su una vivacità intellettuale, culturale ed umana alquanto diffusa, non ancora sulla capacità di trasformarle in sistema. È ciò che manca, è ciò che serve.