Siamo nella fase 2, in una fase fatta di voglia di rinascita e di speranza. Ma non dobbiamo dimenticare quello che è stato, per non cadere in banali errori e ritrovarci con più contagi da Covid-19 di quelli che abbiamo registrato ad oggi nella nostra terra.
Questo articolo vuole dar voce a chi in prima persona ha vissuto la drammatica esperienza del contagio da Covid-19 sulla propria pelle. A chi d’un tratto si è ritrovato dall’altra parte. Non più la persona che assiste e che cura, ma la persona che viene assistita e curata. E che per fortuna si è negativizzata. Ce l’ha fatta a vincere la battaglia contro questo “nemico invisibile”, che ancora è tra noi.
Sono riuscita ad arrivare (a distanza) a lei, un’infermiera dell’Ospedale di Catanzaro, del reparto Dialisi, risultata positiva al Covid-19.
Per rispetto della sua privacy non rivelo il suo nominativo, ma userò le sue iniziali: N. R.
Queste le domande che ho rivolto a N.R., che sin da subito si è dimostrata aperta nel racconto e disponibile, anche nel darmi la possibilità di darle ‘del tu’ nell’intervista.
Grazie N. per aver accettato questa delicata intervista. Mi sembra scontato quanto necessario chiederlo: come stai adesso?
“Adesso sono in remissione dalla malattia, sono in convalescenza a casa”.
Vivi sola in casa? Hai famiglia? Raccontami un po’ di te…
“Io ho famiglia, siamo 5 persone, io mio marito e i miei 3 figli, di cui un ragazzo autistico di 16 anni. E purtroppo ho contagiato lui e l’altro mio figlio di 10 anni. Quindi dopo di me, ho avuto due casi di Coronavirus in famiglia e devo dire che non ne siamo usciti fuori facilmente”.
Come hai affrontato la situazione di contagio in particolar modo con G., tuo figlio, che mi hai detto soffre di una forma grave di autismo?
“È stata dura, è stato il dramma nel dramma. Ho cercato di gestire la sua problematica in concomitanza con il Covid. È un ragazzo che richiede il contatto fisico, che non utilizza la mascherina. Ad un ragazzo autistico se tu dai un ordine fa l’esatto opposto. E quindi le misure da prendere con lui sono state particolari. Ovviamente facevo le cose solo per lui, il bagno solo a lui, le sue robe da vestire messe da parte…
È stato difficilissimo con lui, anche se siamo stati per tutto il tempo del contagio a casa perché abbiamo subito l’isolamento domiciliare. Abbiamo avuto tre ordinanze di isolamento domiciliare legate al contagio dei tre casi avuti in famiglia. Quindi lui è stato sempre a casa nonostante sia un ragazzo che adora uscire e nonostante lui avrebbe potuto usufruire dei permessi per farlo, visto la sua situazione. Ma ovviamente non ha potuto. E per lui è stata come una prigione!”
Ma facciamo qualche passo a ritroso se te la senti. Quando sei risultata positiva al Covid-19?
“Io ho scoperto di essere positiva il 16 marzo. Lavorando in dialisi siamo risultati positivi sei infermieri, un medico e sei pazienti!”
Correggimi se sbaglio, si è registrato il 27 marzo il primo decesso di Catanzaro, si trattava di un paziente dializzato. Come è stata affrontata da te la cosa? Che emozioni hai provato?
“Si, purtroppo sì, sono deceduti due pazienti con grande dispiacere. In questi casi non trovi una ragione, se non in questo virus che non si conosce fino in fondo e che si sta imparando a conoscerlo giorno dopo giorno. Io ho provato un’emozione fortissima di dolore! Anche perché nei giorni in cui sono avvenuti i due decessi io ero ricoverata. Mi sono rivista in loro, nella loro gravità della patologia. Loro erano ricoverati in rianimazione, mentre io in reparto di malattie infettive”.
Come ti sei sentita in quei giorni di ricovero? Tu che eri abituata ad assistere e non ad essere assistita?
“Ho provato una grandissima paura ed una sensazione di isolamento! Ero ricoverata in stanza con un’altra paziente positiva, ma i sentimenti sono stati forti, per la mancanza, giustamente, di un approccio assistenziale tipico nei confronti del paziente. Anche se i ragazzi del reparto di malattie infettive sono stati molto affettuosi, la relazione era limitata, avevo difficoltà a distinguere l’infermiere, dall’oss e dal medico e avevo difficoltà a capire se si trattasse di un uomo o di una donna. C’era molta paura anche tra lo staff medico e il fatto poi di non poter vedere nessuno è stato difficile. Sono stata ricoverata il 17 marzo e in quei giorni di ricovero ho trovato un reparto ben organizzato, non ho riscontrato delle anomalie!”
Il tampone ti è stato somministrato per prevenzione o perché hai avvertito qualche sintomo riconducibile al Covid?
“È stato fatto perché è risultato positivo al Covid un paziente del mio reparto e poi di conseguenza sono scattati i controlli del caso, anche sul personale medico!”
Qual è stata la prima cosa a cui hai pensato quando hai scoperto di essere positiva al virus?
“Io ho provato una grandissima paura dell’ignoto!”
Chi ha seguito il tuo caso? Quali sono stati i sintomi che hai dovuto affrontare e superare? Quale la terapia che ti hanno prescritto?
“Ho avuto la febbre, poi mi è insorta una piccola dispnea, avevo questa respirazione irregolare anche mentre parlavo, mentre facevo dei piccoli passi. Da lì è stata fatta una tac ed è risultata la polmonite bilaterale da Covid e subito sono stata ricoverata.
Ho avuto poi gli altri classici sintomi da Covid: perdita del gusto e dell’olfatto, forte tosse e dolori lancinanti. Ho fatto la terapia del protocollo dello Spallanzani di quel periodo: ho fatto la terapia della clorochina, azitromicina e rezolsta, e urbason 20, tutto in maniera sperimentale. Anche se adesso dicono che la clorochina non ha alcun effetto sul virus. Io comunque mi sono negativizzata alla fine di marzo. Il mio caso è stato seguito da tutti i medici del reparto di malattie infettive”.
Dal momento in cui sei stata negativizzata sei stata mandata a casa?
“Si, è da due mesi circa che sono a casa in convalescenza! Per fortuna gli ultimi controlli hanno mostrato un apparato polmonare migliorato! Importante è che sia andato via il virus…”
Se sei stata negativizzata nel momento in cui sei rientrata a casa, come è avvenuto il contagio con i tuoi figli?
“Perché ero positiva prima di effettuare il tampone, il virus era in incubazione già prima di giorno 16 marzo. I giorni successivi al giorno 16 hanno effettuato i tamponi a casa e hanno trovato positivo mio figlio M. di 10 anni! Successivamente la positività è stata riscontrata in G.“
Come ti sei sentita nei loro confronti? Hai provato un senso di colpa?
“Ho avuto tantissimi sensi di colpa nei loro confronti. È stata forse una delle cose più brutte che io abbia vissuto in tutta la mia vita. Il fatto di essere consapevole di aver portato il virus a casa è stata una sensazione orrenda. Fortunatamente hanno avuto sintomi molto più leggeri ai miei, anzi si può dire che sono stati quasi asintomatici”.
Non potevi prevederlo, ricordiamo che si tratta di un virus che riguarda una pandemia mondiale e ancora nessuno sa con precisione come combatterlo! Come la tua famiglia ha reagito alla positività del virus e come avete gestito questa situazione critica?
“Mio marito e mia figlia per fortuna non sono stati contagiati. L’attenzione maggiore si è riversata verso mio figlio G. con la sindrome autistica. Siamo stati sempre con le mascherine, anche dentro casa. M., il bambino di 10 anni, è stato il primo a risultare positivo dopo di me e per tutelare gli altri ho dovuto prendere la terribile decisione di isolarlo nella sua stanza per 10 giorni senza farlo uscire: mangiava lì, giocava lì, studiava lì. Usciva solo per andare in bagno e ogni volta veniva disinfettato tutto. Devo dire che è stato bravissimo, è stato molto forte, ha capito la gravità della situazione e ha capito l’importanza di doversi isolare per tutelare gli altri componenti della famiglia. E tra l’altro aggiungo che forse è stato uno dei pochi casi di contagio di bambini a Catanzaro.
In ogni caso la cosa positiva dietro tutta questa terribile esperienza è che si è creata una grande gara di solidarietà intorno alla mia famiglia, manifestata soprattutto da amici e parenti. Pensa che hanno creato un gruppo whatsapp per organizzarsi con i turni e non far mancare mai i pasti come quelli del pranzo e della cena alla mia famiglia. È stato messo da mio marito un tavolino all’esterno della casa, per evitare i contatti ravvicinati e gli amici o i parenti arrivavano e poggiavano i piatti preparati su questo tavolo; tutto questo lavoro è perdurato per 12 giorni!”
Nella fase 2 la situazione dei contagi sembra essere sotto controllo e in netto calo rispetto alla prima fase, anche se la situazione rimane da monitorare nei prossimi giorni. Tu alle persone che sono adesso affette da Covid-19 cosa vorresti dire?
“Io dico loro di mantenere la forza ed il coraggio che ho avuto io nell’affrontare la malattia. Dico loro di farsi un auto training per sconfiggere il virus, perché a volte è anche un fatto mentale, cercare di dire a se stessi – Io ce la posso fare! –. Poi ci sono tanti asintomatici e quindi dipende dai casi. Io ho avuto una virulenza intensa pari ai livelli di quelli registrati a Bergamo“.
E cosa vuoi dire invece alle altre persone? Quale senti che sia il messaggio più importante da far arrivare a loro?
“Fortunatamente sto leggendo che i dati in Calabria sono buoni, non ci sono molti contagi e sono contentissima di questo, mi auguro che i casi positivi si possano azzerare del tutto e che non ce ne siano, senza però mai perdere di vista il fatto che comunque il virus è presente tra noi. Bisogna tenere ancora la guardia alta, ed attenerci ai consigli che ci vengono dati.
Io sono contenta che l’economia e che le attività siano riprese, ora forse ne sappiamo qualcosa in più su questo virus e proprio perché ne sappiamo qualcosa in più possiamo difenderci. Non dobbiamo pensare che il virus sia ormai andato via, per cui non abbassare la guardia, mantenere le distanze, indossare la mascherina ed adottare tutti i presidi che ci vengono consigliati di utilizzare e poi evitare gli assembramenti. Io su questo sono ancora molto cauta. Non sono uscita ancora di casa, forse ho anche io la ‘sindrome della tana’, per me è stato un evento traumatico quello che ho affrontato e superato. Ci ho messo forza e coraggio, però sento di avere bisogno di tempo e di riprendere gradualmente i ritmi”.
Ai colleghi infermieri, ai medici e a chi si occupa in prima persona di assistere la persona malata, cosa vuoi dire?
“Loro sono gli eroi del quotidiano. Perché la morte di un paziente in ospedale in tanti anni di lavoro noi infermieri, così come i medici l’abbiamo sempre vissuta da vicino. Posso comprendere la situazione emergenziale che si è verificata a Bergamo, lì si è compiuta una tragedia, ma qui in Calabria fortunatamente i contagi e i decessi sono stati nettamente inferiori. Con il Covid le persone si sono rese conto del grande lavoro che fanno quotidianamente infermieri, medici e tutti gli operatori sanitari, ma in realtà è un lavoro che viene fatto sempre e da sempre. Poi mi sento di dire che nell’ospedale in cui sono stata ricoverata c’è stato un grande lavoro di equipe e c’è stata una grande risposta anche sotto pressione”
Sul web se ne sono dette tante: si è parlato di complottismo, si è parlato del Covid come di una semplice influenza. Addirittura, alcuni hanno sostenuto che i corpi cremati a Bergamo siano stati fatti cremare per eliminare delle prove, perché in realtà quelle morti non sarebbero state causate dal Covid. A tutte queste dichiarazioni tu come ti senti di rispondere?
“Dico semplicemente che non è giusto parlare in questi termini. A me è capitato di leggere un commento su Facebook di una persona che mi ha scritto – molto spesso il Covid fa il solletico alla maggior parte delle persone –. Non si può dire questo, è vero che ci sono gli asintomatici, ma c’è chi ha avuto sintomi gravi, chi è morta per questo virus.
E poi aggiungo alle persone che dicono – è un virus che colpisce solo gli anziani – chi ci dice che una nonnina di 80 anni può morire tranquillamente di Covid solo perché è una persona anziana?! Ha diritto alla salute come tutte le altre persone. Questo virus ha colpito meno i bambini e i ragazzi, ma ha colpito maggiormente la fascia dai 45 anni ai 60 anni e la fascia over 60/70. Io ho 43 anni sono sempre stata in salute, non ho mai avuto nulla, eppure il virus mi ha colpito e con danni che di certo non mi hanno fatto il solletico”.
Ci ritroviamo in questa fase 2, un po’ disorientati, ma felici di aver ritrovato una piccola libertà perduta e di aver ripreso (la maggior parte di noi) la propria routine, seppur modificata. Per parlare di normalità ancora ce ne vorrà. Per te e la vostra famiglia questa fase 2 è realmente iniziata?
“Noi siamo in una sorta di quarantena volontaria. Mio marito ha ripreso a lavorare e mia figlia sta uscendo qualche volta, anche se le raccomando di fare attenzione. Io personalmente mi sento confusa all’idea di uscire, ho fatto qualche visita medica, la spesa la faccio online e ancora sento di aver bisogno di tempo per riprendermi. Spero di ritornare presto alla mia vita, di poter ritornare al lavoro per aiutare gli altri. Sono un’infermiera da vent’anni e continuerò a fare quello che ho sempre fatto! Non avrei voluto diventare paziente in questo periodo di pandemia, ma avrei voluto svolgere il mio ruolo di infermiera per aiutare gli altri. Non mi è pesato molto l’essermi trovata dall’altra parte, mi sono concentrata sull’affrontare e superare questa lotta al Coronavirus e sul guarire. Però adesso sento la voglia di riprendere in mano la mia vita”.
Secondo te, N., ci potrebbe essere un aumento dei contagi tale da farci ricadere in una nuova fase di lockdown? Cosa ti prospetti dal futuro?
“Io sono una donna molto positiva, per cui non mi piace pensare che si possa tornare ad una fase di chiusura. Spero che il virus, sebbene sia ancora in circolo, possa aver diminuito la sua potenza e la sua attività. Ancora neppure i virologi si esprimono in maniera certa. Potrebbe ritornare in autunno, chi lo sa. Ma io penso che adesso che si sa qualcosa in più, se ognuno di noi continua a adottare le misure di prevenzione, penso che si possa convivere con questo virus e spero che il contagiato, che mi auguro sia sporadico, si possa curare senza subire grandi danni”.
Adesso si parla di plasma terapia e dei test sierologici da effettuare a campione. Tra il tampone e il test sierologico quale ritieni più efficace? Quale la differenza tra i due strumenti?
“Io mi sono resa disponibile per la donazione del plasma. Diciamo che qui al sud è una terapia di cui ancora non se ne è parlato molto, più nelle regioni del nord. Ancora devo capire la sua vera efficacia. E comunque prima di poter donare il plasma, bisogna effettuare il test sierologico, per capire se si sono sviluppati un numero sufficiente di anticorpi. Con il tampone si vede nell’immediato la presenza del virus o meno e si vede la contagiosità della persona che si è sottoposta al tampone. Con il test sierologico si effettua una tracciabilità del virus e si possono misurare gli anticorpi IgM e IgG e capire se il virus a distanza di mesi lo si è avuto oppure no. Di certo il tampone aiuta di più ad avere un quadro chiaro ed istantaneo che riduce il rischio di contagiosità”.
Ti ringrazio N. per la tua disponibilità e per aver risposto a domande di certo non facili, che ti hanno fatto di sicuro ripercorrere in qualche modo il tuo dolore e la tua brutta esperienza, ancora non del tutto conclusa (anche se il peggio ormai è alle spalle). Lascio a te l’ultima parola:
“Mi sento di ringraziare pubblicamente tutte le persone che mi sono state vicine in questo momento così triste. La nota positiva di tutta questa esperienza è la vicinanza che ho percepito dalle persone che mi hanno supportato. Voglio essere comunque positiva e andare avanti, non posso e non voglio piangermi addosso! E poi voglio dire che ho una famiglia straordinaria, molto mi ha aiutato la serenità che mi ha dato la mia famiglia. Senza questa serenità tutto sarebbe stato atroce!”.
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